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Sabato 13 novembre 2004
E' dall'anno scorso che non mangiamo trippe. Fino ad una trentina di anni fa i trippai erano molto presenti nella topografia gastronomica urbana. Oggi sono rari; i sopravvissuti campano vendendo specialmente scatolame per animali domestici. Nel nostro gruppo la zuppa di trippe - "sbira" - non è egualmente amata. Forse perché a più d'uno ricorda economie sofferenti. Anche per questo oggi, a Valleregia, il giro degli antipasti ha avuto un successo strepitoso. Ma i cultori della trippa, anche se discreti, non nascondono di sentirsi parte d'una élite. Solo una aristocrazia del palato non si lascia intimidire da un cibo un tempo confinato alla mensa dei poveri. A questa aristocrazia appartiene Peverelli.
Non è il suo unico segno di distinzione. Peverelli ha gesti urbani, non alza mai la voce e porta i capelli alla Lancillotto; un caschetto, bianchissimo, serico. Sino a pochi anni fa erano biondi. Sempre con la stessa pettinatura - dalla nascita, dice - scelta dalla madre. Non l'ho mai visto ravviarli; a volte li scuote con un movimento aggraziato ma senza particolare intenzione. Peverelli è un mite: ha occhi chiari e un sorriso benevolo. Appartiene al nucleo gregari; non è uno di prima fila anche se non perde una parola: partecipa alla discussione annuendo o aggrottando la fronte ma interviene raramente. Peverelli è nome d'arte. Sembra che gli sia stato affibbiato parecchi anni fa dopo che era stato visto con in mano un libro di Luciana Peverelli. Nessuno in fabbrica conosceva la celebre autrice di romanzi rosa degli anni Trenta ma la copertina, allusiva al genere, era stata sufficiente per farne un caso. Lui aveva detto che lo doveva portare alla madre ma ormai era fatta e da quel giorno era diventato Peverelli, anzi "u Peverelli", e tanti in fabbrica credono che sia il suo vero nome.
Peverelli andrà in pensione alla fine di gennaio del 2005. Altri più giovani di lui ci sono già. E' perché si sono avvalsi di benefici inventati dalla politica per meglio gestire le ristrutturazioni specie delle grandi aziende. Benefici che pur muovendo da valide ragioni sono stati spesso utilizzati in modo perverso. Raffe ad esempio, più giovane di Peverelli, è in pensione già da un anno perché "ha preso l'amianto", l'abbuono di 5 anni concesso a chi ha lavorato in situazioni esposte. "Cu u belin che me l'avievan detu se nu fisse che nu ghe servivu ciù", commenta. Gli altri sono d'accordo: nel reparto di Raffe l'amianto neppure lo vedevano da lontano.
"Aspetto ancora qualche giorno - mi dice Peverelli abbassando la voce - poi gli pianto una mutua, ma di quelle... che arrivo diritto alla pensione". Come il primo giorno di lavoro anche il finale di partita è personale, individuale. Ma in quest'ultimo l'operaio, potendo, ci mette del suo, o almeno ci prova. I giorni di mutua che riuscirà a furare sono pochi: Peverelli li considera, oltre che un modesto risarcimento di una vita spesa al servizio dell'azienda, anche uno sberleffo. Come dire "ecco, ora vi faccio vedere chi sono".
Tutti sanno che lui sta per lasciare. Soliti sfottimenti: se è vero che si è già impegnato la liquidazione, che si è trovato un nuovo lavoro in nero per paura di non saper cosa fare, che ha assunto una badante per farsi assistere nei suoi ultimi anni, che l'azienda gli ha offerto di assumerlo come dirigente perché essendo sempre stato taciturno si erano convinti che fosse anche intelligente... Lui incassa e sorride: si capisce che si diverte; non si offende. Alle spalle ha una storia singolare che da anni alimenta la sua presa in giro da parte dei compagni. Sono l'unico lì che non ne è a conoscenza e per questo mi racconta. E' successo una ventina di anni fa: è stato investito sul lato sinistro dall'onda d'urto, violenta e assordante di un grosso pezzo scivolato dall'alto di un imbrago. Poteva restarci invece è stato solo sfiorato. Così almeno gli è stato raccontato perché lui del fatto non ricorda nulla. Come non ricorda dei giorni successivi in cui, gli hanno detto, andava regolarmente a lavorare ma si comportava in un modo un po' strano fino a quando, ormai dopo una settimana, qualcuno se l'era data che c'era qualcosa che non funzionava e l'avevano ricoverato. Del fatto e dei giorni seguenti quando ancora si muoveva in fabbrica Peverelli non ricorda nulla - "anche se in seguito mi hanno portato da dei medici che hanno fatto dei tentativi". Poi, molto dopo, gli hanno confermato che era stato colpito da un "amnesia transitoria" una cosa che "lascia un vuoto, un buco di cui non sai niente".
Mi dice che i suoi compagni di lavoro lo avevano interrogato a lungo, "più dei medici". Li lasciava increduli che non ricordasse come dopo il fatto avesse lavorato per giorni e completato una bolla aperta da prima dell'incidente. Gli avevano perfino fatto vedere un pezzo che aveva tracciato due o tre giorni dopo la sberla ma lui niente, non ricordava e basta. Al suo ritorno in reparto lo avevano preso per un furbacchione che l'aveva montata per sfangarsi il lavoro: da lì una battuta via l'altra. La più comune era che in quei famosi giorni si era fatto prestare un sacco di soldi da tizio e caio e che ora doveva restituirli. "E io sai, un po' ci stavo perchè sapevo che era uno scherzo ma un po' mi agitava: questo buco una volta o l'altra si riempirà, mi dicevo. E invece è rimasto lì".
Il fatto accaduto a Peverelli - dimenticare un periodo della vita - richiama, tra i presenti, il caso opposto di un sardo, siderurgico della Siac, per anni figura centrale della commissione interna di quello stabilimento. "Era uno che ricordava tutto, ma proprio tutto: i nomi degli operai, le date delle riunioni, ma anche cose minime come i giorni di mutua dei reparti, i presenti a quella o quell'altra riunione. Bastava andare lì e dirgli: cosa ha detto l'ingegnere quella volta che avete discusso di quel problema - un fatto avvenuto magari 10 anni prima. O quanto era la trattenuta della mensa nel 1940? E lui tranquillo rispondeva; una enciclopedia. Così fino a più di novant'anni quando è morto, pochi anni fa: la memoria del secolo".
L'uomo che dimentica e quello che ricorda: i presenti ne parlano con tono compiaciuto. Quasi a sottolineare la singolarità della fabbrica, un luogo dove è possibile imbattersi in situazioni umanamente - anche clinicamente - eccezionali; un luogo dove, pur restandone all'interno, è possibile farsi una idea del mondo, della sua economia, della morale, persino della malattia.
Percepita come una realtà unica, la fabbrica, al momento in cui ognuno è venuto a parlarne, è diventata plurale. Stessi ingredienti, stesse parole ma le storie che vengono raccontate differiscono al punto che sembrano riferirsi a fabbriche diverse. Tanto è il peso della storia personale su ciò che ognuno ha vissuto e raccontato che solo raramente i punti di vista si sommano. Inevitabile che torni con forza la domanda: com'è possibile una rappresentazione unitaria - il "museo degli operai" - se persino gli oggetti, le stesse macchine sembrano cambiare segno a seconda del come e del quando, del carattere o dell'anagrafe di chi racconta?
Ne parliamo. Tanto per cominciare tutti riconoscono che le loro storie hanno in comune la fabbrica. E, anche se hanno età diverse, per tutti la fabbrica è stata e rimane il filtro attraverso il quale hanno osservato la realtà. "Per quelli della mia generazione, ha detto Ugo, la fabbrica è un posto che, anche se ti ci avessero chiuso dentro, potevi arrivare lo stesso a capire com'era il mondo". Egualmente comune a tutte le storie è anche un dato esistenziale che potrebbe chiamarsi la segregazione del produttore. La fabbrica è un luogo che volutamente la società tiene nascosto, separato dal resto del mondo. L'operaio riconosce nel mondo attorno i beni prodotti da lui; sa che sono pregiati. Ma al contrario di quello che capita ad esempio a un panettiere le cose che fa l'operaio sfuggono - almeno nella loro particolarità - agli occhi del mondo, finiscono in luoghi o in insiemi difficili da decifrare. Un terzo elemento che accomuna le diverse storie è sentire la fabbrica come un luogo di scontro permanente, strutturale. Col padrone, coi compagni di lavoro, col tempo, la logica, il buon senso, la stanchezza, i soldi e così via. Un sentimento "faticoso": lo scontro, la lotta comincia all'inizio di ogni giornata e non finisce neppure quando vai a letto la sera. Puoi fare tentativi di ignorare lo scontro o di aggirarlo ma la realtà della fabbrica non lo permette.
Oltre a questi c'è un altro punto, tra i presenti considerato più significativo degli altri - sui miei libri si chiama "la percezione di sé come classe" - di cui ha parlato Elio. "Intanto, quando sono arrivato in Ansaldo, sapevo che era la fabbrica dove aveva lavorato mio padre. U travaggiava lì, ti veddi? Mi ha detto uno dopo nemmeno un'ora che ero entrato. La fabbrica era il mio posto, quello della mia famiglia. Il quartiere dove abitavo era di case operaie. I negozi che ti davano la roba a credito sul libretto erano per operai. Io lavoravo da Ansaldo, ero un operaio e sentivo di appartenere alla classe degli operai, che aveva un unico destino malgrado le differenze che c'erano al suo interno. Questa idea che la classe operaia esisteva proprio, l'avevo precisissima; non so da dove mi venisse ma l'avevo. Come del resto l'aveva anche mio padre che magari me l'aveva instillata, ma senza ragionamenti, semplicemente parlando. E se ben ricordo tutti in fabbrica, anche il più scemo, avevamo quest'idea. Perfino il crumiro ce l'aveva e infatti cercava di tirarsene fuori, a modo suo, con la soluzione personale. Tra me e un muratore sentivo una differenza enorme ma non mi sarebbe mai venuto in mente di dire la classe degli edili. Erano classe operaia come noi. Poi c'era quel fatto che noi siccome lavoravamo con le macchine, leggevamo i disegni e che magari di noi si era occupato Marx, pensavamo di saperne più di loro".
Che peso dovrà avere nel museo degli operai "la coscienza di classe" appena illustrata da Elio? Pacian osserva che ha visto una mostra delle vecchie tessere della CGIL; se le ingrandissimo verrebbero fuori dei bei quadri che servirebbero a dare l'idea. L'apertura alla concretezza è bloccata da Ugo, oggi inesauribile. L'idea che la classe operaia fosse una - ha detto - c'era anche sotto il fascismo che pure aveva introdotto un sacco di divisioni. "Era una idea che per noi operai era pacifica, naturale come l'aria che respiri". Lui però ricorda che quando era entrato in Ansaldo, nel '38, c'era ancora gente vecchissima che raccontava che c'era stato un tempo che gli operai di Ansaldo si credevano gli unici e di legarsi agli altri non ne volevano sapere. Disprezzavano specialmente gli operai arrivati a Genova da fuori, marchigiani, ferraresi, bergamaschi e veneti; tant'è che non li ammettevano nelle società operaie e per tagliarli fuori parlavano in dialetto. Il partito socialista si era battuto a lungo per l'unità di tutti gli operai ma c'erano voluti anni per riconoscere che anche i foresti facevano parte della classe operaia.
Nessuno ne dubitava ma il ricordo dei tempi antichi citato da Ugo è servito a confermare che l'idea che accomuna i presenti di appartenere ad un'unica classe, avere unico destino ecc. non è poi così antica. L'argomento ha alle spalle una letteratura vasta e celebri autori che qui non è il caso di scomodare. Ugo ha una sua spiegazione - subito ribattezzata "il grande tremore" - su come possa essere avvenuto a suo tempo un così radicale cambio di opinione.
"Sei lì che vivi alla giornata. Vivi e cerchi di medicartela: la tua bolla, il socio di bolla, il capo, la multa, il sindacato, il freddo la mattina e via così; magari con qualche scioperin, qualche casino, qualche puttanata, mutua e imboscamenti vari. Poi viene un giorno o un tempo che la casa trema. Perché trema? E chi lo sa. Il fatto è che non lo senti solo tu ma anche il vicino di macchina, il capo, l'ingegnere, la direzione e quelli del cantiere lì vicino, e quelli del bar dove vai la sera perché tutti a loro modo, chi più chi meno sentono che trema. Si guardano, ci guardiamo e: belin, ma trema. E siccome in quei casi tutti si mettono a parlare come se non si vedessero da anni e tutti siamo lì a dire cosa succede o non succede, capita che vengono fuori storie vecchie che nessuno ne sapeva più niente. Altri invece ti dicono delle parole nuovissime, imparate chissà da chi, e che in fabbrica non si erano mai sentite. Insomma che in pochi giorni non si capisce più niente; o meglio si capisce benissimo: tutti vivevamo nella cronaca spicciola e poi di colpo, trac, appare la storia che sarebbe poi quando si capisce che le cose possono cambiare". Questo, conclude, è quanto è avvenuto nel '68 e che molto probabilmente sarà avvenuto anche in quei tempi là quando hanno deciso di essere una classe sola.
La recita di Ugo, in dialetto, con pause e accelerazioni da grande attore, è stata accolta da grasse risate. Ugo ha tirato in ballo il '68 perché è una cosa che gli piace e perché sta cosa del cambiamento di idee lo ha sempre appassionato. "Cambiare idea - da grandi e non da ragazzi - non è un fatto razionale, è un miracolo. Perché ognuno di noi non ha solo una idea ma ha anche gli amici di quell'idea, le abitudini di quell'idea, tutto di quell'idea. E cambiare idea significa cambiare tutto". Il '68 è stato un mucchio di persone che hanno cambiato idea, "ma non di partito o di voto, no, cambiato idea sulla vita!... L'unica volta che ho visto in 40 anni la gente che cambiava il modo di pensare".
In quei mesi c'è stata "la cosa più grande, quella che nessuno della mia età (Ugo ha più di 80 anni), ma anche più vecchio, avesse mai visto. Non per il casino - di quello dopo la guerra ne abbiamo fatto tantissimo, per non dire dell'attentato a Togliatti - ma per l'importanza. Bastava che qualcuno in riunione o in assemblea denunciasse una cosa storta di quelle che vedi tutti i giorni - e che per una vita ti han detto o hai pensato che non ci poteva fare niente - che subito si ritrovava insieme ad altri, che - così, con naturalezza - gli dicevano hai ragione, non se ne può più. Facciamo, brighiamo...".
Alla questione dei cambiamenti indotti dal '68 solo Elio aveva fatto cenno la volta che eravamo alla Castagnola (l'ultimo stoccafisso prima dell'estate). Oggi però quasi tutti hanno da dire. Il "tremore", precisano alcuni, prima di diventare grande era stato piccolo e aveva dovuto vincere forti resistenze. Si sente la parola "burocrati" scomparsa ormai da anni. Tutti sono d'accordo nell'affermare che il confronto politico in fabbrica prima del '68 assomigliava piuttosto alle esercitazioni di compagini preoccupate di non uscire dai ranghi. "A meno che non si trattasse di uno giovane che entrava sguarnito e allora cominciavi a lavorartelo - ha detto Paolo - cambiare idea in fabbrica non era facile; anzi era quasi impossibile. In fabbrica entravi giovane, vivevi, ci diventavi vecchio: sempre a fianco di altri. Conosci tutti da sempre, ti aspetti le loro reazioni, sai le loro parole, i gesti. La stessa cosa vale nei tuoi confronti. E' come un enorme sistema di aspettative: tu dagli altri, gli altri da te. Sei in un gruppo, sotto gli occhi di tutti: cambiare idea è una cosa che può costare molto. Tu cambi ma dopo può succederti che neppure ti vedono più".
"Vi ricordate - Ugo oggi è un fiume - quella volta che eravamo al funerale di S., quel saldatore morto di canchero? Nel suo reparto era già il terzo o il quarto che se ne andava. Per dire che, almeno da noi, non era una cosa eccezionale. Lì c'era anche quello che lavorava proprio accanto a lui, uno calmo che non gli avevo mai sentito dire due parole di seguito. Beh, quella mattina, dopo il funerale, era esploso: una collera indicibile. E s'era messo a raccontare della prima volta che erano stati male tutti e due per il fumo del reparto e che all'infermeria neppure avevano chiamato il medico e che un'altra volta quello lì' che poi è morto aveva cacciato sangue dal naso, dalla bocca ma guai a parlar di mutua... E urlava, urlava proprio come un matto. Tanto che mi son detto: ma belin, dov'era lui o dove ero io quando succedevano ste cose? Mi sembrava di non averlo mai conosciuto. C'era voluto quell'urlo il giorno del funerale... Ma eravamo al camposanto non in fabbrica". Perché la fabbrica - è la conclusione di Ugo - è un luogo chiuso dove è vietato essere liberi. Al contrario degli spazi aperti o di luoghi anonimi - come nel caso sarebbe stato il camposanto. Il '68 aveva permesso a molti di "pensare in un modo nuovo", proprio perchè la fabbrica si era in parte trasformata in un luogo aperto.
Sul movimento del '68 e '69, abbiamo parlato molto. Tutti - sia pure con sfumature diverse - riconoscono la frattura col passato. Pippo ha detto che il passato sopravviveva solo per quello che i nuovi, giovani o vecchi non importa, avevano deciso di utilizzare; non come struttura, organizzazione, forma mentis ma, piuttosto, come etica. "Raccoglievamo il testimone di decenni che ci erano sconosciuti e che anche dopo sono rimasti tali: ma sentivamo che c'erano state delle idee nobili e noi ne facevamo parte. L'importante era il nuovo, quello che vivevamo allora. Lì non c'erano maestri o esperienze a cui riferirsi".
Partigiano della frattura anche Ugo, che pure è il più anziano. "La cosa che non si dice ma che è quella che allora è venuta in testa a tutti è che i tempi potevano cambiare. In quei mesi, per la prima volta, tutti ci aspettavamo che i tempi cambiassero. Forse bisognerebbe dirlo: neppure nel '45 alla fine della guerra c'era stato un sentimento del genere così forte. Allora c'erano rovine dappertutto, niente lavoro, neppure un ufficio che funzionasse, strade per aria: cosa volevi che ci aspettassimo... Al massimo di venirne fuori. Invece tra il '68 e il '69 il senso che le cose potevano cambiare è stato enorme, anche tra gente che non ci aveva mai pensato. Il bello era che era una attesa di cose che stavano proprio succedendo e non fantasie. Per esempio le assemblee dove si parlava di tutto, erano in fabbrica ma anche fuori. Ovunque ci fosse una situazione un po' così, veniva fuori una assemblea: operai, impiegati, inquilini, maestri, croce rossa; e tutti andavano dagli uni e dagli altri. E poi l'organizzazione: comitati per tutto. E poi il modo di discutere e di votare: tutti discutevano e votavano tutto. Cose che erano già il cambiamento perché il loro risultato concreto era enorme: ognuno godeva di rispetto, tutti acquistavano dignità, la paura di parlare e di pensare era finita. Belin, ditemi se non era un cambiamento della madonna. Eri vissuto per anni vicino a persone senza saperne niente o credendo di sapere tutto. E loro lo stesso; finita lì. Invece cominciava la scoperta: cose bellissime, inaudite. Uno che torna a muoversi dopo che per 40 anni ha portato il gesso. E poi quelli della mia generazione che avevano preso botte per più di 20 anni: chiusure, sciopero, botte; declassamenti, sciopero, botte; contratto, sciopero, botte... Ora invece uscire dalla fabbrica, andare in centro, in corteo e non doversi picchiare cioè prenderle, e un sacco di studenti che ti parlano, ti considerano e la gente che ti ha in simpatia. Altro che andare a passeggio; era una gioia. Si capisce che i più giovani ci prendevano gusto subito. Loro hanno pensato di poter andare avanti così ma...".
Pippo ha detto "è come se avessimo inforcato certi occhiali che ci facevano vedere cose che c'erano anche prima ma che senza quegli occhiali non si vedevano". A questo punto, a mezza voce, Carmelo - quello della stanza del partito - ha detto "che poi saievan i meximi speggetti de quelli che sun chi" (che poi sarebbero gli stessi occhiali di quelli che son qui). Era un momento di quasi silenzio e tutti intorno abbiamo sentito. E abbiamo pensato che il gruppo conviviale che siamo, le chiacchiere attorno al "museo", la nostra passione politica viene dalla cosa vissuta allora. Anche noi lì attorno al tavolo - circondati dalle tazzine da caffé e dai bicchierini per la grappa - un oggetto storico...
Abbiamo finito con alcuni racconti della propria scoperta del '68. Ha fatto ridere Raffaele che ha raccontato come nell'estate del '68 era stato avvicinato da alcuni studenti che stavano conducendo una specie di inchiesta sugli operai. Lui, curioso aveva dato la sua disponibilità, e loro gli avevano dato un foglio dove la prima domanda era se era soddisfatto di essere un operaio e la seconda se gli piaceva il suo lavoro. Ai tempi si era chiesto: che razza di domanda è, ma sono scemi, ma come si permettono. Poi però non ci aveva dormito perché aveva capito che avrebbe potuto rispondere sì o no ma che in tutti e due i casi non era soddisfatto. Alla fine glielo aveva detto, gentilmente ma in modo chiaro: "Pe piaxei figgeu, lasceme perde, che se me mettu a pensa a ste cose fassu a rivulusiun". E commenta: "magari quei gondoni, facevano quella domande proprio per farmela fare".
Questo resoconto, come già altri precedenti, è sovrabbondante. Dipende dal fatto che non "vedo" ancora il museo e temo che relazioni più succinte possano privarmi di materiali che, al momento opportuno, potrebbero essere utili.
9. Sabato 13 novembre
La Baita, a S. Alberto di Bargagli, è un posto "più su" dei nostri soliti. Sono amici di Paolo; che vuol dire un trattamento da mille e una notte a un prezzo stracciato. Antipasti, primi, secondi; ogni portata richiama il tradizionale e nello stesso tempo lo contamina (deliziosamente). Esotismi a cui non siamo abituati ma che sappiamo apprezzare. Così i vini: di qualità superiore a quella consueta. Il tutto in una sala accogliente dove possiamo farla da padroni, serviti da un ragazzo simpatico e ironico quanto basta alla vista di un gruppo anzianotto così dialettico e conviviale.
E' stato il mito - il "grande tremore" evocato da Ugo, da Luigi chiamato "il grande trambusto" e da Elio "il tempo del sentimento che si poteva cambiare" - che d'un balzo ci ha spostato dall'etnos alla storia. Una svolta liberatoria dopo che ognuno aveva cominciato a temere che non saremmo mai usciti dall'universo dei particolari. E' forse la ragione per cui solo oggi, grazie anche ad alcune battute di Pippo, che in fabbrica è entrato nel 1968, a 17 anni, si è venuti a parlare del cambiamento, quello materiale, oggettivo, che prescinde dalla storia dei singoli anche se ha contribuito non poco a determinarla. Perché Pippo, che ha passato la sua vita in sala prove, prima da operaio e poi da tecnico, la fabbrica l'ha in testa. Ne parla e capisci che la vede; per questo sa. "Non sono stato assunto da un reparto ma da una fabbrica", dice. E siccome in fabbrica c'è arrivato proprio al tempo del "grande tremore" ha avuto la possibilità, la "fortuna", di vedere il "nuovo". Anche se era un neo assunto, pertanto non in grado di fare confronti col passato, Pippo il nuovo aveva potuto scoprirlo egualmente. Perchè, spiega, a quel tempo gli operai più grandi di lui - la stragrande maggioranza della fabbrica - s'erano messi improvvisamente a parlare, a raccontare il passato cioè la loro storia.
Pippo non appartiene agli intrattenitori: non ne ha la voce perentoria, il giudizio assertivo, la mimica, il gusto della provocazione. E' "serio"; un costruttore e oggi ne dà prova. Racconta come se vedesse. Due anni, il '68 e il '69, in cui grazie ad assemblee e riunioni di ogni tipo, in qualche caso vere sedute di analisi collettiva, il passato della fabbrica, gli era apparso sciorinato davanti come un bucato steso al sole. Lo straordinario mutevole intreccio che legava in modo necessario la politica dell'azienda ai modi di fare degli operai, all'organizzazione del lavoro, ai rapporti tra i compagni: "l'ordine padronale". Pippo ricorda il '68 come la "contestazione" di quell'ordine. Tumultuosa e, all'apparenza, casuale, col passare delle settimane aveva posto, a se stessa prima ancora che al padrone, le sue domande. Che, ridotte all'osso, erano se il lavoro industriale era compatibile col riconoscimento della libertà e della dignità dell'operaio e, ancora, se il sapere dell'operaio doveva o no essere riconosciuto per quello che era, un sistema di conoscenze affidate ad una responsabilità e discrezionalità che appunto ne facevano un sapere e non un utensile. A distanza di tempo, dice Pippo, è difficile credere come di questioni in apparenza così astratte si fosse dibattuto per quasi tre anni. In riunioni a cui tutti o quasi gli operai avevano partecipato raccontando della propria condizione e della propria storia. Risolvendo così - col parlare di sè - una subalternità a cui erano stati da sempre confinati.
Era stata una discussione accompagnata e seguita da fatti concreti, importanti. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori, una carta dei diritti che lì per lì sembrava una roba formale ma che non per caso era arrivata solo dopo tutto il "trambusto" dei due anni precedenti. Poi, nel 1972, c'era stato l'Inquadramento Unico che rivedendo i profili professionali dei singoli apriva all'operaio la possibilità di una piccola carriera e di una rivalutazione del suo lavoro. Infine, intrecciati in modo non casuale con le questioni precedenti, i temi della nocività e della salute affrontati per la prima volta non con lo scopo di monetizzare il danno ma per cercare di eliminarlo. Aria nuova: finiva improvvisamente il tempo del lavoro ridotto ad una variabile dipendente e la proprietà doveva investire in tecnologia e sicurezza. Tanto che all'Ansaldo di Campi, a partire dai primi anni Settanta, era iniziato una significativa bonifica delle condizioni di lavoro insieme ad un generale ammodernamento delle macchine utensili.
Ma era stato nei rapporti sociali - di classe? - che tra il 1970, l'anno dello Statuto, e il 1972, l'anno dell'Inquadramento, la fabbrica era cambiata. Pippo ricorda - i presenti annuiscono convinti - un oggetto importante ormai dimenticato: il "documento", il foglio vergato spesso con ortografia incerta e dalla sintassi complicata per dover tenere assieme tutte le istanze espresse dagli operai durante le loro assemblee. Il "documento", conclusione irrinunciabile di ogni assemblea o riunione di reparto, era stato il tramite tra le espressioni particolari, del gruppo e del reparto, con l'universale dell'assemblea di fabbrica. Organizzazione del lavoro, "professionalità", gerarchie ma anche violenze, soprusi, casi personali tutto finiva su quei foglietti che una volta approvati venivano ciclostilati e fatti circolare tra gli altri reparti della fabbrica. Così, in pochi mesi, la fabbrica era stata indagata, riletta, rovesciata come un guanto; svelata.
Mai sentito, anche a memoria dei più anziani, che fosse esistito un tempo che tutti ne sapessero a quel modo. E mai era successo che dentro la fabbrica esistesse un luogo fisico - battezzato nell'occasione "Consiglio dei Delegati di Reparto e di Ufficio" - dove si riunivano i "delegati", personaggi nuovi eletti dalle rispettive assemblee di reparto a discutere e coordinare i risultati delle stesse. Tutto nato da una spinta iniziale di cui rapidamente s'era persa la memoria - forse perché segnava il confine con la schiavitù precedente - ed era andato avanti un giorno dopo l'altro; come un evento naturale. Ma a provare la durezza dello scontro, bastava quella stessa sede del consiglio dei Delegati; un territorio strappato e occupato dentro la fabbrica dove solo qualche mese prima non era possibile tenere neppure la più innocua riunione sindacale.
Il Consiglio era stato il luogo naturale dove riferire, venire a sapere e quindi preparare la grande vertenza, la più sentita e la più laboriosa: ridefinire il lavoro, trattarne l'economia. Che poi significava diventare consapevoli di ciò che era il lavoro oltre i gesti, l'abilità, e la fatica: quel "sapere operaio" che sia il padrone sia l'operaio - per motivi diversi, si capisce - ritenevano scontato. Tra il '70 e il '71 il Consiglio, forte di una ventina di piattaforme emerse dalle discussioni nei reparti, aveva dato inizio alla vertenza aziendale approdata, nel 1972, dopo 100 ore di sciopero, all'Inquadramento Unico. Tutte le attività che si svolgevano in fabbrica erano state definite in base alla professionalità, quel mix di sapere fatto di pratiche, di responsabilità, di conoscenze che insieme al riconoscimento della qualità del lavoro offriva un incremento salariale.
"Un secolo fa, ha osservato Papir. E Lino - al solito, per non perdere botta - "ma cosa dici? Almeno due secoli...".
Pippo è finalmente nel suo: ricorda nomi, date, particolari. Anche se ormai ha i capelli bianchi, per molti di loro lì è ancora lo smilzo ragazzino conosciuto 35 anni prima, il siciliano, silenzioso, bruno, con gli occhi attenti che non ne perdevano una. Ora è lui a tenere banco. Lo fa, con la discrezione abituale, tenendo in mano un quaderno ad anelli che ha estratto dalla tasca del giaccone. Sulla copertina verdastra molto vissuta, un piccolo adesivo tondo, chiaro, bordato di rosso, e dentro un vietcong che imbraccia alto un fucile: "con il Vietnam" c'è scritto. Dentro, dal 1969 al 1976, c'è la cronaca del "Comitato operaio Asgen": riunioni, interventi, finanziamenti, testi di volantini con appuntata la tiratura, articoli del giornalino di fabbrica - di nuovo le tirature. Tutto appuntato in oltre 500 pagine scritte da una parte sola. "La copertina è rimasta la stessa dal primo giorno. Poi, via via che i fogli si riempivano li sostituivo con i nuovi". Lì dentro c'è la fabbrica che cambiava pelle, il dire e il fare dei protagonisti di quegli anni.
Il quaderno esibito da Pippo ha prodotto una certa emozione; anche compiacimento. Fin'ora s'era trattato di ricordi, parole, al massimo volantini. Col quaderno, in pratica un diario, la storia è sembrata più vicina. L'entusiasmo è stato tale che ognuno è tornato a dire la sua su quegli anni come volesse aggiungerla a quanto già si trovava nel quaderno. Episodi di lotta che avevano dato vita a kermesse; rabbie antiche e recenti tradotte in pratiche ludiche come lanci di pomodori o di kaki su crumiri e impiegati che si sottraevano alla lotta senza disdegnarne i vantaggi. In tutti il ricordo della scoperta fatta allora che la vita di fabbrica, se non poteva cambiare di molto, poteva però essere riscattata. Ad esempio col tornare a sentire di far parte di una comunità solidale; la consapevolezza di un destino comune. Come al football quando si dice "si perde o si vince insieme".
"Il partito e il sindacato non erano rimasti fuori della porta però avevano perso l'esclusiva, il monopolio della politica. C'eravamo anche noi, il Comitato, persone nate con quel movimento o che avevano scelto di farne parte perché erano in crisi con le loro organizzazioni. Eravamo il nuovo, i più giovani, quelli che avevano i contatti con gli studenti, che sapevano cosa succedeva nelle altre fabbriche. Per il partito e il sindacato era stato uno choc. Loro pretendevano il monopolio: della politica in fabbrica, dei contatti con l'esterno, delle informazioni da far circolare. All'inizio hanno pensato di poterci usare poi hanno cercato di tagliarci l'erba sotto i piedi. Ma noi avevamo il favore anche di tanti che venivano dalle loro fila, tipi doc, indiscutibili, gente che aveva capito che eravamo importanti.
"Il comitato - dice Pippo - potrebbe essere identificato come l'espressione di quello che la fabbrica ha vissuto in quegli anni. La sua intelligenza veniva dalla sua stessa composizione, dai rapporti che aveva stabilito col movimento ma anche dal sentirsi capace di raccogliere il testimone da altri che lo avevano portato in anni difficili. Abbiamo interpretato quella parte di fabbrica che fino a poco prima non pensava di avere la capacità e la forza di esprimersi; noi stessi ne facevamo parte. Da lì è venuto il nostro prestigio. Ed è ciò che ha ferito il sindacato, il partito; si sentivano defraudati di qualcosa che ritenevano fosse una loro esclusiva. Qualcuno è arrivato a odiarci forse solo perchè eravamo più giovani, perché avevamo più credito di loro senza aver fatto la Resistenza o senza l'Armata rossa".
Del Comitato Pippo è stato più che un protagonista; oggi ne è la memoria. Il quaderno dalla copertina verde passa da una mano all'altra. "Eccolo qui, dice Paolo compiaciuto, il Vietnam; il Vietnam ha contato, belin se ha contato; ma come si fa a stabilire quanto? Era una cosa che allora sentivamo, molto: non è un caso se sul quaderno c'è l'adesivo col vietcong".
All'unanimità il quaderno dal colore incerto viene riconosciuto come oggetto irrinunciabile del museo. Anche se Raffaele commenta: "troppa carta...". Ha ragione anche lui. Il quaderno non è le 12 tavole né il Codice giustinianeo ma non è un caso se tutti ne hanno riconosciuto l'importanza. Cosa potrebbe rappresentare meglio quella stagione? Certo anche il quaderno andrà decifrato, contestualizzato; dovrà essere accompagnato da molte delle cose dette da Pippo.
"Va, bene, ha detto Lino - che con la fine del 2004 e la prevedibile conclusione delle discussioni sul museo vede ridursi le sue possibilità di provocazione - il quaderno ce lo mettiamo. Ma allora ci va anche messo come è finito sto belin di Comitato; sennò qui ci diamo le medaglie e basta".
La battuta arriva quando la tensione del gruppo è già calata. La prima osservazione è ancora di Pippo. La svolta, dice, è venuta attorno al 1975. Pippo usa parole come "graduale normalizzazione" e "tensione politica in calo". Il Comitato aveva inoltre sofferto della fine politica del Manifesto. E poi c'erano gli "altri", i concorrenti, l'ortodossia, che avevano ricucito rapporti, messo in campo un bel po' di facce nuove al solo scopo di far concorrenza a loro. "Forse, aggiunge Pippo, siamo noi che abbiamo più demerito di quanto loro non abbiano merito. Non abbiamo avuto la forza necessaria e alle spalle non avevamo una tradizione... E poi eravamo dei laici così come quella parte dei loro compagni che però stava dalla parte nostra. Loro invece erano dei religiosi e contro di noi hanno proprio fatto una guerra di religione".
Luigi è meno benevolo. "Ci hanno fatto la guerra come a dei nemici. Non ci volevano tra i piedi. Bastava che qualcuno parlasse con noi e subito lo andavano a cercare per metterlo in guardia, denigrarci".
Tocca a Piero tirare fuori il rospo - dimenticato o censurato, chissà. Il '74, ricorda, è l'anno del sequestro Sossi e il '76 è quando hanno ammazzato Coco. La fine del Comitato sta lì in mezzo. "Il sequestro di Sossi, anche se per quel fatto in fabbrica c'era stato uno sciopero, poteva ancora starci. Mi ricordo di uno che allora mi aveva detto che meglio di Sossi c'era solo Siri, il cardinale. Così tanto per dire. Invece Coco, l'assassinio no, non ci stava. E' allora che il Comitato era diventato sospetto; forse perché aveva diminuito la sua pressione politica. Ecco, dicevano, fanno così perché sono passati alle Brigate rosse; stanno diventando clandestini. Facevano girare dei nomi, anche di compagni del Comitato; una cosa pazzesca. Intini, il direttore del Il Lavoro, un giorno sì e uno no, scriveva che presto avrebbe pubblicato l'elenco dei membri della colonna Ansaldo delle Brigate rosse, che lui lo conosceva... Si capisce che il partito comunista ci ha sguazzato".
Pippo non sembra convinto. "La ragione, dice, è che eravamo stanchi. Eravamo pochi e il nostro impegno era enorme. Riunioni, produzione di materiale, diffusione, contatti con altri gruppi sono cose che alla lunga pesano anche quando da giovani ci si fa meno caso. Forse abbiamo pensato che se sulla grande politica - Manifesto, Pdup, Nuova Sinistra Unita ecc. - la partita era persa o in stallo, in fabbrica non saremmo mai più tornati indietro. Forse è stata questa la nostra ingenuità: scambiare per definitivo un modo di stare in fabbrica che dalla direzione era stato subìto. Insopportabile al punto che, al primo apparire della Cassa, quel modo è stato smantellato; crollato in un soffio.
"Per dire quanto ci sembrava improbabile quello che sarebbe successo di lì a poco basterebbe la storia delle nostre partite di pallone. Cominciate proprio quando il Comitato stava smobilitando e la fabbrica aveva appena assunto nuovi operai, giovani, sardi. E' stato allora che è uscito il pallone. Nella pausa di mensa. Durava mezz'ora; scaglionata per turni in modo che in mensa non ci fosse una concentrazione eccessiva: reparti che cominciavano alle 11,30, altri alle 11,45, altri ancora alle 12; così fino alle 13,45. Insomma era possibile prendersi un po' di minuti oltre la mezz'ora. E noi ce li prendevamo anche se i guardiani si facevano vedere con la bicicletta; ci guardavano. A giocare erano quasi tutti ragazzi, che avrebbe dovuto già essere al lavoro da 5 o 10 o 15 minuti. Non avevamo un campo da gioco e di usare il piazzale di ingresso non se ne parlava. I calci li tiravamo in uno spazio sul lato del capannone dove c’era il passo carraio della ferrovia. Due coppie di binari tagliavano il campo nel senso della lunghezza: unica regolarità in un mare di buche e crepe dell’asfalto.
"A volte mancava anche la palla. Capitava facile che, superando il basso cancello carraio finisse fuori dello stabilimento. Scavalcare il cancello per recuperare il pallone si poteva ma non era igienico, specie se nella garitta che controllava il cancello c’era un guardiano. Così, dopo aver fatto fuori i due o tre palloni di plastica disponibili, si finiva a giocare con un po' di stracci di lana rifasciati e modellati col nastro adesivo per pacchi. Il più delle volte era solo un dar calci ad un pallone da una dozzina di noi disposti a cerchio ma, se si trattava di partita, finiva sempre con qualche incazzatura. La corsa tra buche e binari trasformava ogni caduta in ammaccature di ginocchia e gomiti; la gravità della scorrettezza era commisurata alla prognosi. Erano beghe con il pubblico tifoso sempre disposto ad infiammarle".
La fine era arrivata con un comunicato della direzione affisso nelle bacheche e il Consiglio di fabbrica che abbozzava. Non era un divieto alle attività sportive dei dipendenti, ma annunciava che da quel momento ogni infrazione all’intervallo mensa sarebbe stato accertato e represso. "Non era un richiamo campato in aria. L’intervallo di mensa complessivo andava dalle undici e trenta alle due meno un quarto e, ovviamente, nessuno aveva a disposizione tutt’intere quelle due ore ed un quarto. Si oscillava tra la mezz’ora dei turnisti ai 45 minuti di normalisti e impiegati, ma la palla prendeva calci ininterrottamente da quando le donne alla mensa cominciavano a versare nei piatti la prima minestra a quando cominciavano a metter ordine sui tavoli sparecchiati. Presi dalla foga del gioco o del tifo spesso dimenticavamo di guardare all’orologio".
Le partite erano finite con l'inverno dell'83. Il colpo definitivo glielo aveva dato l'inizio della Cassa. "Inverno, dicembre del 1983; era un venerdì. Eravamo andati ai Tegli a mangiare il castrato. Al ritorno siamo passati dallo stabilimento per sapere a chi avessero mandate le prime lettere. Erano il suggello di un tempo in cui avevamo fatto le cose più grandi".
Se oggi dovessimo votare gli oggetti da destinare al museo, oltre al quaderno del Comitato ci sarebbe sicuramente anche il pallone di stracci di quelle partite.
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Manlio Calegari
Il Museo degli Operai
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Indice
Venerdì 23 gennaio 2004
Sabato 14 marzo 2004
Sabato 17 aprile 2004
Venerdì 14 maggio 2004
Venerdì 11 giugno 2004
Sabato 10 luglio 2004
Giovedì 26 agosto 2004
Sabato 9 ottobre 2004
Sabato 13 novembre 2004
Sabato 4 dicembre 2004
Sabato 18 dicembre 2004
Postfazione 2007
Frammenti di un museo virtuale
L'album di Ezio Bartoli
Il taccuino di Pippo Bertino
La memoria di Gino Canepa
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